IL PRETORE Pronuncia la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale nella causa iscritta al n. 10801 r.g.l. 1995, promossa da: Vivone Antonio, Vivone Anna, Vivone Fulvio, Vivone Tecla, Vivone Fiorenzo, quali eredi di D'Auria Maria, rappresentati e difesi dall'avv. Gianfranco Volonta' (domiciliatario), del foro di Torino, parti ricorrenti, contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Bruno Cuomo, dell'ufficio legale della sede provinciale dell'istituto (domiciliatario), parte convenuta. Oggetto: applicazione della sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale. 1. - Sull'estinzione del giudizio. I ricorrenti indicati in epigrafe, eredi della sig.ra D'Auria Maria, gia' titolare della pensione di reversibilita' SO n. 3607073 con decorrenza dal luglio 1977 (cfr. comunicazione INPS prodotta all'udienza del 9 gennaio 1997: proc. verb. pp. 3-4), agiscono in giudizio al fine di ottenere il ricalcolo dei ratei del trattamento percepiti dal loro dante causa diretto sino al decesso, avvenuto il 6 ottobre 1991; ricalcolo da effettuare in misura pari al 60% del trattamento minimo spettante al congiunto e dante causa della sig.ra D'Auria, all'atto del decesso del medesimo, come sancito dalla sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale, in riferimento all'art. 22 della legge 21 luglio 1965 n. 903. Rilevato di avere vanamente esperito l'iter amministrativo, avviato con istanza del 31 agosto 1994, rimasta peraltro senza esito alcuno, chiedono al giudice del lavoro, in via principale, di condannare l'istituto, con pronuncia generica, al ricalcolo in oggetto, nell'ambito della prescrizione decennale, nonche' alla rifusione delle spese di lite, in forza del principio di soccombenza. Prospettano in subordine una questione di legittimita' costituzionale del sopravvenuto art. 1, comma 182, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui esclude dal beneficio gli eredi dell'assicurato che (come nel caso di specie) non siano a loro volta titolari della prestazione previdenziale. L'istituto convenuto chiede a sua volta estinguersi il giudizio a norma dell'art. 1 comma 183 della legge n. 662/1996 cit. e, in subordine, eccepisce la decadenza dei ricorrenti dal diritto al ricalcolo, per superamento del termine decennale di cui all'art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica n. 639/1970, come interpretato dall'art. 6 del decreto-legge n. 103/1991. Cio' posto in ordine alle rispettive posizioni delle parti sulla vicenda in esame, va osservato che non pare qui potersi applicare l'art. 1, comma 183, della legge n. 662/1996 e pronunciare la declaratoria di estinzione del giudizio sancita dal medesimo, non essendo individuabile - in modo certo ed incontrovertibile - un "interessato" e un "avente diritto" e cioe' risultando la pretesa affermata dai ricorrenti (non riconosciuta dall'istituto) contestata dall'I.N.P.S. La questione di causa viene pertanto ad assumere un tipico connotato contenzioso, cosi' da rendere indispensabile l'esercizio della giurisdizione, in ossequio e attuazione della previsione di cui all'art. 24, comma primo, della Costituzione. Ragionare diversamente (e cioe' interpretare l'enunciato di cui sopra in senso estensivo e onnicomprensivo, cosi' da ricomprendere ogni controversia che comunque comporti l'applicazione della sentenza n. 495/1993 del giudice delle leggi) significherebbe del resto attribuire alla disposizione menzionata una portata destinata a paralizzare la tutela giurisdizionale, proprio in un caso in cui essa e' invocata dal presunto titolare del diritto affermato e deve avere il suo normale svolgimento, risultando la pretesa contestata dal presunto obbligato. Tale ipotetica interpretazione, ove realmente praticabile, dovrebbe allora essere espunta, per il vulnus che determina ad un bene costituzionale di primaria importanza, in applicazione del principio che impone all'interprete, tra piu' significati possibili, di scegliere quello conforme ai valori della Carta costituzionale, tralasciando viceversa i contrari (in tal senso cfr., da ultimo, Corte costituzionale, sent. 18 luglio 1991 n. 356, par. 10, in Dir. prat. lav., n. 38/1991, p. 2451, la quale ha ribadito la seguente regola ermeneutica: "se fra piu' significati possibili uno solo e' conforme ai principi costituzionali, a questo va data la preferenza da parte dell'interprete). 2. - Sulla decadenza dal diritto azionato. Venendo a questo punto all'esame del merito della vicenda, il pretore osserva quanto segue. I ricorrenti chiedono che, nei limiti della prescrizione decennale, da computare con riferimento alla data di presentazione della domanda amministrativa diretta ad ottenere l'applicazione della sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale e andando cosi' a ritroso, venga loro riconosciuto il diritto al ricalcolo dei ratei della pensione di reversibilita' di cui sino al decesso era titolare la sig.ra D'Auria, in ragione del 60% del trattamento minimo spettante al dante causa della stessa, all'atto della morte. Trattasi di diritto che, contrariamente a quanto assume l'istituto convenuto in memoria, non pare potersi ritenere estinto ai sensi dell'art. 47, comma primo e secondo d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, come interpretato dall'art. 6, comma 1, del d.-l. 29 marzo 1991 n. 103, convertito nella legge 1 giugno 1991, n. 166. Nel caso in esame ci troviamo infatti in presenza - pacificamente - di pensione di reversibilita' attribuita dall'istituto a seguito di semplice domanda dell'interessato e senza necessita', per il medesimo, di proporre il ricorso amministrativo. Dovrebbe conseguentemente trovare applicazione la disposizione sulla decorrenza del termine di decadenza prevista, in ipotesi di iter amministrativo incompleto, dall'ultima parte del citato art. 6, comma 1, del decreto-legge n. 103/1991, e cioe' a far tempo "dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei". I ricorrenti avrebbero allora diritto ad ottenere il ricalcolo oggetto di causa, in luogo dei dieci anni che precedono la nuova domanda amministrativa (come da tali parti richiesto), quantomeno per l'intero decennio antecedente la data di deposito del ricorso giudiziario. A cio' aggiungasi che l'art. 47, comma secondo, del decreto del Presidente della Repubblica n. 639/1970 - come del resto si ricava dalla sua formulazione letterale - si riferisce unicamente all'ipotesi in cui la prestazione o il beneficio richiesto abbia formato oggetto di specifica richiesta in sede amministrativa e, quindi, prende in considerazione solo il caso in cui l'assicurato o il beneficiario sia rimasto inerte per Io spazio di un decennio, dopo avere messo in moto l'iter amministrativo e conosciuto la determinazione negativa dell'istituto, ancorche' tacita. Non contempla viceversa la diversa ipotesi in cui il mancato esercizio del diritto, protrattosi nel tempo, non risulti correlato ad alcuna fase amministrativa remota; e cio' in quanto l'interessato si e' limitato ad avanzare la propria richiesta in via amministrativa oltre il decennio dall'insorgenza iniziale della prestazione e dalla liquidazione originaria della pensione, dando peraltro corso al successivo giudizio prima del decorso del termine di legge (decennale e, dal 19 settembre 1992, a seguito dell'art. 4 del d.-l. 19 settembre 1992 n. 384, convertito nella legge 14 gennaio 1992 n. 438, triennale) da tale istanza. Trattandosi del resto di enunciato normativo contenente un'eccezione ai diritto costituzionale di azione (art. 24, comma 1, Cost.), non puo', per il divieto di cui all'art. 14 preleggi al c.c., abbracciare anche tale ipotesi e cioe' essere esteso oltre il caso contemplato, rappresentato dall'avvenuto svolgimento dell'intera fase amministrativa (o di un suo segmento) anteriormente al decennio (ora triennio) che precede la proposizione dell'azione giudiziaria. Orbene, nel caso di specie i ricorrenti, aventi causa del titolare di trattamento di reversibilita' da oltre un decennio, hanno chiesto il ricalcolo pensionistico oggetto di causa - per la prima volta e in via amministrativa - solo a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 495/193. Non risulta conseguentemente ravvisabile alcuna decadenza decennale ne' e' ora riscontrabile quella triennale, non essendo decorso tale termine tra la data di conclusione del complessivo iter introdotto dall'istanza amministrativa e quella di avvio della domanda giudiziale. Ne' d'altra parte - contrariamente a quanto ipotizza invece l'I.N.P.S. - la questione pare riconducibile al primitivo provvedimento di liquidazione della pensione di reversibilita', a favore del dante causa delle parti ricorrenti, provvedimento pacificamente non seguito, nell'ambito del successivo decennio, dall'instaurazione di alcuna controversia giudiziale, da parte dell'assicurato. Il calcolo pensionistico effettuato utilizzando l'integrazione al trattamento minimo gia' spettante al dante causa e' infatti un quid dotato di propria autonomia giuridica e concettuale rispetto alla forma ordinaria di determinazione della reversibilita', essendo regolato da propri specifici presupposti, ancorati ad apposite disposizioni, del tutto diverse o ulteriori rispetto a quelle che a loro volta ne condizionano il computo sulla base dei soli contributi accreditati a favore del de cuius. Tale beneficio esige pertanto un'apposita domanda amministrativa, non essendo a cio' sufficiente quella originaria, afferente semplicemente la pensione indiretta. Una riprova di quanto ora evidenziato lo si ricava del resto dal contegno processuale tenuto dall'istituto convenuto nelle cause, analoghe alla presente, promosse di fronte a questo ufficio, contegno che qui si richiama in quanto costituisce circostanza appartenente al notorio (art. 115, comma secondo, c.p.c.). Ove infatti la domanda di ricalcolo in oggetto non sia stata preceduta da apposita istanza amministrativa e dal compimento della relativa fase procedurale, l'I.N.P.S. ha sempre prospettato (e prospetta) l'eccezione di improcedibilita' ex art. 443 c.p.c. o quella ex art. 7 legge 11 agosto 1973 n. 533, ottenendo cosi dal giudice la sospensione del giudizio o la declaratoria di inammissibilita' della domanda medesima. Il che conferma, con l'autonomia della richiesta di riliquidazione in esame rispetto al provvedimento originario di pensione, anche la necessita' di tenere distinte e non confondere le due distinte procedure amministrative concernenti e facenti capo alle relative domande, evitando cosi' di assorbire l'una nell'altra. La soluzione qui accolta e' d'altra parte conforme all'insegnamento offerto in punto dal supremo collegio. In una vertenza avente ad oggetto l'integrazione al trattamento minimo, nella quale l'I.N.P.S. si duole della decisione del giudice di secondo grado, per avere respinto l'eccezione di intervenuta decadenza decennale, non tenendo in tal modo conto dell'assenza di autonomia tra la richiesta di ricalcolo pensionistico, basato utilizzando anche tale integrazione, e la prestazione originaria, la Corte cosi' osserva, disattendendo il rilievo dell'istituto: (cfr. Cass., 9 gennaio 1996, n. 95, in Fori it., 1996, I, 877-79): "L'autonomia dell'integrazione rispetto alla pensione e' innegabile - e cosi' l'autonomia della domanda di riliquidazione della pensione con inclusione in essa dell'integrazione al minimo per effetto della dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della norma ostativa a tale integrazione, rispetto alla originaria domanda di attribuzione della pensione medesima (...) -, sol che si consideri che il diritto all'integrazione, regolato da apposite disposizioni di legge, e' ancorato a ''propri presupposti'', appunto, o requisiti (...), a condizioni di fatto e di diritto del tutto peculiari e distinte e diverse da quelle in presenza delle quali sorge il diritto alla pensione, tant'e' che non soltanto puo' darsi diritto alla pensione e non all'integrazione, ma questo puo' ''cessare'' per cause solo ad esso relative e che non toccano l'altro diritto". Onde formula la seguente conclusione: "... il termine di dieci anni per la proposizione dell'azione giudiziaria decorre "dalla data di comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata dai competenti organi dell'istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della decisione medesima'' (...). (...) tale "decisione'' non e' quella relativa alla domanda originaria - non e', in particolare, il provvedimento di liquidazione della pensione non-integrata -, ma e' invece quella che e' stata pronunciata e comunicata, o che avrebbe dovuto esserlo, sulla domanda di integrazione". Ne' ha alcuna rilevanza il fatto che in tale vertenza fosse direttamente in discussione l'integrazione al minimo della pensione gia' erogata alla parte in giudizio, mentre in questa sede si dibatte dell'integrazione al minimo spettante al dante causa, destinata a riverberarsi sul trattamento indiretto liquidato in favore della parte ricorrente. In entrambi i casi, invero, ci troviamo in presenza di richieste di ricalcolo pensionistico da tenere separate rispetto alla semplice determinazione "a calcolo" e cioe' sulla base del solo accredito contributivo, in ragione dell'autonomia giuridica e concettuale che le contrassegna. 3. - Sul merito della vertenza. Cio' posto, va osservato che all'accoglimento della domanda e' di ostacolo il comma 182 dell'art. 1 della legge n. 662/1996, il quale dichiara competere il diritto agli arretrati nascenti dalla sentenza n. 495/1993 del giudice delle leggi solo all'interessato o al suo superstite avente titolo al trattamento di reversibilita' alla data del 30 marzo 1996. In base allo jus superveniens e in deroga alla previsione di carattere generale vigente in materia di successione ereditaria (art. 456 e ss. c.c.), il diritto delle parti ricorrenti risulta pertanto estinto, essendo pacificamente azionato non dal diretto interessato, ma dal suo avente causa, non titolare a sua volta della prestazione pensionistica. Tale disposizione pare pero' porsi in contrasto con il canone di ragionevolezza delle scelte legislative desumibile dall'art. 3 Cost. Ci troviamo infatti in presenza, al momento di entrata in vigore della legge n. 662/1993, di crediti gia' entrati a far parte del patrimonio del dante causa dei ricorrenti, e, quindi, entrati a loro volta nel patrimonio di questi ultimi, dopo il decesso della sig.ra D'Auria. I quali ricorrenti vengono in tal modo privati di un beneficio gia' venuto ad esistenza e maturato, estinto ex post in forza di disposizione destinata ad operare retroattivamente. Manca peraltro una ragione plausibile di tale efficacia ex tunc, come richiesto dalla sentenza n. 155/1990 della Corte costituzionale, la quale ha attribuito al canone di irretroattivita' della legge carattere di "principio generale deIl'ordimanento" e di "regola essenziale del sistema", cui il legislatore "deve ragionevolmente attenersi" potendo derogarvi solo in presenza di "un'effettiva causa giustificatrice" e cioe' di ragioni valide e meritevoli di apprezzamento (nella sentenza 4 aprile 1990 n. 155 della Corte costituzionale, in Rass. giur. Enel, 1991, 446, si legge quanto segue: "Il principio di irretroattivita' costituisce un principio generale del nostro ordinamento e, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignita' costituzionale, rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salvo un'effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei cittadini"). La disposizione in oggetto realizza inoltre una disparita' di trattamento tra gli eredi dell'originario beneficiario, irrispettosa del principio ex art. 3 Cost. Il diritto agli arretrati spetterebbe infatti all'avente causa a seconda che tali arretrati si riferiscano a ratei maturati prima o dopo il 31 dicembre 1995, come previsto dal comma 181 della legge n. 662/1996. Alla luce delle considerazioni che precedono la prospettata questione di legittimita' costituzionale, la cui definizione risulta rilevante rispetto al giudizio in corso, va ritenuta non manifestamente infondata; con conseguente avvio del procedimento davanti al giudice delle leggi.